lunedì 14 maggio 2012

Una lettera inedita di Charles Bukowski. Ai cacciatori di streghe.

Pablo Picasso, Les demoiselles d'Avignon, 1907



Caro Hans van den Broek,

Ti ringrazio per la tua lettera che mi informa che uno dei miei libri è stato rimosso dalla Nijmegen Library. E’ accusato di discriminazione contro i neri, gli omosessuali e le donne. E che io tratterei di “sadismo” per il semplice gusto di essere sadici. La cosa che io temo di discriminare sono l’umorismo e la verità. Se scrivo male di neri, omosessuali e donne è  dovuto a com’erano quelli che ho incontrato. Ci sono molti “pessimi esempi” in giro – cani cattivi, censura cattiva, anche “cattivi” maschi bianchi. Solo che quando si scrive di “cattivi” maschi bianchi nessuno si lamenta. Devo forse scrivere che ci sono neri “buoni”, omosessuali “buoni” e donne “buone”? Nel mio lavoro di scrittore mi limito a fotografare a parole ciò che vedo. Se scrivo di “sadismo” è perché esiste, non l’ho inventato io, e se parlo di qualche azione terribile è perché queste cose succedono realmente. Non significa che sono dalla parte del male, se una cosa come il male esiste. Quando scrivo non sempre sono d’accordo con ciò che accade, e non mi vado a ficcare nel fango solo per il gusto di farlo. Inoltre, è curioso che le persone che inveiscono contro il mio lavoro sembrino trascurare quelle parti che parlano di gioia e amore e speranza. E  tali parti esistono. Le mie giornate, i miei anni, la mia vita hanno visto alti e bassi, luci e tenebre. Se scrivessi solo e continuamente di “luce” e non menzionassi mai il resto, come artista sarei  un bugiardo.

La censura è lo strumento di coloro che hanno la necessità di nascondere la realtà a se stessi e agli altri. La loro paura è solo l’incapacità che hanno di affrontare ciò che è reale, e non riesco ad arrabbiarmi con loro. Sento solo questa tristezza spaventosa. Da qualche parte, nella loro educazione, sono stati schermati contro la totalità dei fatti della nostra esistenza. È stato loro insegnato a guardare in un solo modo quando ne esistono molti altri.

Non mi stupisce che uno dei miei libri sia stato preso e rimosso dagli scaffali di una biblioteca locale. In un certo senso, sono onorato di aver scritto qualcosa che ha risvegliato questa gente dalla sua imponderabile profondità. Ma sto male quando il libro di qualcun altro viene censurato, perché quel libro, di solito è un gran libro, di quelli che ne esistono pochi, e nel corso dei secoli è questo il tipo di libro che è spesso diventato un classico, e ciò che si pensava scioccante e immorale è diventato una lettura obbligatoria in molte delle nostre università.

Non sto dicendo che il mio libro appartenga a quest’ultima categoria, ma sto dicendo che di questi tempi, in questo momento in cui ogni momento potrebbe essere l’ultimo per molti di noi, è dannatamente irritante e incredibilmente triste che abbiamo ancora tra noi gente tanto mediocre e amareggiata, cacciatori di streghe e persone che declamano contro la realtà. Eppure, anche questi fanno parte di noi, sono parte del tutto, e se non ho scritto cose su di loro, dovrei forse farlo. Magari qui. E ora basta.

Un augurio che le cose migliorino, tuo

Charles Bukowski

Questa città

René Magritte, La condizione umana, 1935



Arrivai verso la mezzanotte,
rovistando fra le epoche, cercando cuori e città,
con un'apologia di Belmonte in tasca
vanificatrice di urla e angosce isteriche filoanimaliste.
Mi tuffo sorridente nel malgoverno migliore,
del resto la società ha di che farsi perdonare,
lavoro, noia, nucleare, la mafia delle case farmaceutiche;
del resto le affermazioni migliori dimorano nel vizio.
Una città cosi poco storica non ha molto da offrire
cosicché prendo una guida verso il nulla
alla modica cifra di quattro schiaffi ed un cammello,
per guadare il deserto come fosse un fiume.
Giallo paglierino, sudicio deserto della ragione
grida sciocchezze ed ipnotizza snobbismi
con le sue vetrine scoppiano guerre negli occhi degli astanti;
per fortuna brandisco una lingua scaccia inganni.
Mi travolge improvvisamente un'ondata di idealismi
ma non abbiamo l'età per cose disobbedienti
si rema tutta la vita verso la piena maturità
senza mai raggiungerla per poi ritrovarsi senza più denti!
Facce torve senza dimora
afferrano per aria tutte le stelle,
in alto campeggiano solo le insegne degli alberghi
e insieme l'ultimo scoppio assordante della desolazione.
Questa città è morta (e fa morire)
non si posson passare i giorni in casa a sbronzarsi
ma questa città ha speso tutto in sesso e alcool,
persino i preti qui non assolvono più nessuno.
E gli anni '20, che fine hanno fatto?
qui non vedo nulla che non sia nostalgia,
solo cimiteri di anime senza personalità
riempiono la quiete di quest'era.

Questa città è la giovinezza.

sabato 5 maggio 2012

Lo so

Jack Kerouac e Franco Angeli, Deposizione di Cristo, 1966


Lo so che non so scrivere
versi
Ma questo è il mio libro
di righine lattine
Di birra e allora compatiscimi
invisibile
Lettore lasciami pasticciare
anche
Quando ho i postumi & sono senza
idee.


Jack Kerouac

giovedì 22 marzo 2012

E allora mostra a tuo figlio un tramonto

Vincent Van Gogh, Salici al tramonto, 1888


E allora mostra a tuo figlio un tramonto
                                    prima che non ce ne siano più
                 consigliò un vecchio sinistroide
                                    esibendo la solita paranoia
                                                                         della
Sinistra
                 che adesso si è riversata sugli
                                                                ecologisti
                                                  e altri della stessa specie
sempre a farneticare sul
       buco dell' ozono e
                il cancro e il fumo e
                         la popolazione della terra
                                 che raddoppierà di nuovo
                                         entro il duemilaventi
e su come la terra
                   si stia avviando a un'improvvisa
                                      brutta fine
Mentre sappiamo tutti che i media e
                  i cartelli del petrolio e
                                   le compagnie del tabacco e
                                                 gli scienziati dell'industria e
                  il perplesso industriale in generale
                                            ci raccontano un mucchio di
stronzate
                                            e nient'altro che stronzate
            Quindi non c'è bisogno di preoccuparsi
                              "Nessun problema"
                                                    come dicono giù in città



Lawrence Ferlinghetti

Gli aggettivi del tempo

Salvador Dalì, La persistenza della memoria, 1931


Io nutro i dubbi sul creato- creatore che uno studioso di teologia dovrebbe vestire,
-idiozie!- balla, corri, fingi amore, spegni le luci, crocefiggi quell'asino, pendaglio da forca!-
perdo tempo al calar del sole nell'ascoltare il rumore del creato villano-rivoltato-affannato
farsi beffe del tempo, e giù con l'ennesimo eccentrico tramonto, fulmine a ciel sereno.
Sperando nell'ozioso sbeffeggiare del sole infausto, aspiro a spettrali-crepuscolari eruditi antiqui, non antiquati, dar brividi con la loro splendida ragione.
E brindo sorridente- sberla- ad un frutto marcito- zuccherino- alcolico guadando un fiume di rabbia mista a versi serali ciechi, lividi, grossolani, sbriciolati, certezze non certosine d'un tempo che corre verso il suo declino -non c'è declino di natura che possa scalfire il tempo, solo sabbia che scorre all'infinito son io!- E poi all'imbrunire le nuvole si fanno poesia, dopo esser state pioggia, freddo, strette di mano, orgoglio blando plumbeo, origlio al tuo creato-alla tua isterica new york- appiccicosa cera d'api.
E sbam, via un altro giorno-furbo-miserabile-ansioso-stanco-fumoso, rimbombano risate, rimbombano persino risate di chi non c'è- declino angoscioso della cognizione reale d'irrealtà fantasticata-precipitata-marmorea.
Il suo inflessibile imparare dall'imparare e poi disimparare tutto nell'arco d'una articolata, chiacchierata, scritta e riscritta crisi sociale, bam via al conflitto irreparabile. Giardino pieno di punti di domanda questa vita immersa in vite imperfette, clericali, piatte, regolari, ineccepibili, austere, fradice di noia, noia, sport, doccia, pizza! E fortunatamente ci son giovani che dimenticano i pettini, ah beati giovani senza pettini, non regalate emozioni lise, stirate, ordinate, preconfezionate!
Pensate a chi le ha già viste e riviste, brulle concezioni di vita-non vita, piagnucolosa spacca-budella, tu tanto ammirata sotto pietre e immondizia, ignorando tutto di noi, lì finirai.
Salgo, sudo, ridiscendo, svengo, brucio, urlo, credo in domande fantastiche- fantasticate-infreddolite spiar il tempo e non farsene una devastante, perentoria ragione.
Cedi, tempo, regalaci visioni estatiche e frenetiche, brilla tempo noioso, esplodi uragani, granai, di salite e discese verdeggianti, clericali, pubblicitarie, infarcisci d'India la tua miserabile, impensata, impensabile corsa- sbrana-  calcagna e vibra celeste di note estatiche- aromatiche- leali- esotiche! E se un solo giorno nella tua spettrale città non subissata dalle polemiche del troppo giornalismo-impero-substrato che inghiotte buon senso, si farà un gran falò di te e dei tuoi avi grigi-caos-big bang, delle ere e degli altari che ti amano, allora finirai sotto la fradicia nemesi  d'un tempo senza tempo, vuoto-deglutito-finito.

giovedì 1 marzo 2012

L'inedito di Jack London sulla vita : "Cos'è la vita per me"




Sono nato proletario. Ho scoperto presto l’entusiasmo, l’ambizione e gli ideali e per poter ottenere queste cose esse sono diventate il problema di tutta la mia infanzia. Vengo da un ambiente rude, volgare, duro. Non avevo un orizzonte davanti a me: direi piuttosto un confine. Il mio posto in questa società era sul fondo, dove la vita offriva squallore e sventura alla carne e allo spirito.
Sopra di me troneggiava il colossale edificio della società e nella mia testa l’unica direzione era in salita. Dall’interno di questo edificio presi la decisione di arrampicarmi verso l’alto, dove gli uomini indossavano vestiti neri e camice inamidate e le donne erano vestite con abiti meravigliosi. Lassù c’erano cose da mangiare buone e in abbondanza. Questo per la carne. Poi c’era lo spirito. Sapevo che sopra di me stavano l’altruismo, il pensiero nobile e pulito, la sagace vita dell’intelletto. Lo sapevo perché avevo letto tanti romanzi alla biblioteca sul lungomare e in quei libri, ad eccezione dei cattivi e delle avventuriere, uomini e donne esprimevano pensieri bellissimi, parlavano un linguaggio meraviglioso e le loro gesta erano gloriose. In breve, ogni giorno accettavo l’alba e con essa l’idea che sopra di me c’era ogni bella cosa nobile e armoniosa, tutto ciò che rendeva dignitosa e decente una vita che valesse la pena di essere vissuta come giusta ricompensa per i travagli e le miserie.
Ma non é così semplice rampar fuori e lasciare il proletariato, specialmente se si é menomati da ideali e illusioni. Vivevo in un ranch della California per cui venni subito sbattuto davanti alla scala che avrei dovuto salire: era dura. Dentro di me la vita reclamava più di una magra esistenza tra stenti e rinunce. A dieci anni feci lo strillone per le strade di una grande città. Tutto quello che mi riguardava era sempre fatto di squallore e sventura: sopra di me c’era lo stesso paradiso in attesa di essere conquistato ma la scala da risalire era di un altro genere. Era la scala degli affari. Perché risparmiare e investire in bond dello stato visto che mi bastava comprare due giornali a cinque centesimi per rivenderli a dieci centesimi con un semplice movimento del polso, raddoppiando il capitale? La scala degli affari era la mia scala. Fu allora che la visione di me stesso nei panni di un principe del commercio.
Il titolo di “principe” me lo ero già guadagnato a sedici anni, mi era stato appioppato da una banda di tagliagole e ladri che mi chiamavano “Il principe dei pirati di ostriche.” Avevo salito il primo piolo della scala degli affari, ero un capitalista. Possedevo una barca e un perfetto completo da pirata di ostriche e  sfruttavo i miei simili: avevo un equipaggio composto da un marinaio. In qualità di capitano e di proprietario prendevo due terzi del bottino e ne lasciavo un terzo all’equipaggio, anche se l’equipaggio lavorava duro come il sottoscritto e come il sottoscritto rischiava vita e libertà.
Quest’unico piolo fu l’altezza massima che riuscii a salire nella scala degli affari. Una notte partii per un raid tra i pescatori cinesi. Non sbagliamoci, era una rapina: precisamente lo stesso spirito del capitalismo. Il capitalista prende le proprietà dei suoi simili magari servendosi di un rimborso, tradendo un fondo fiduciario, comprando senatori e giudici della corte suprema. La differenza è che io ero volgare: usavo il fucile.
Quella notte l’equipaggio dimostrò l’inefficienza contro la quale il capitalista ha l’abitudine di lanciare i suoi strali: simili inefficienze fanno lievitare le spese, riducendo i dividendi e il mio equipaggio ottenne entrambe le cose. Non ci furono dividendi quella notte e i pescatori cinesi furono più ricchi grazie alle reti e alle corde che non eravamo riusciti a rubare. Mi ritrovai in bancarotta, lasciai all’ancora la barca e partii per un raid lungo il fiume Sacramento. Ma mentre ero via, un’altra gang di pirati della baia fece una scorribanda e portò via qualsiasi cosa dalla mia barca. In seguito recuperai lo scafo alla deriva e lo rivendetti a venti dollari. Ero scivolato dall’unico piolo che avevo salito. Non ritentai più la scala degli affari.
Da lì in poi venni spietatamente sfruttato da altri capitalisti. Io avevo i muscoli e da questi muscoli loro spremevano denaro mentre io ricavavo un sostentamento insignificante. Fui marinaio, scaricatore di porto e manovale. Lavorai nei conservifici e nelle fabbriche, nelle lavanderie, a tagliar prati, pulire tappeti e lavare finestre: mai una volta che potessi godermi il frutto della mia fatica. Guardavo la figlia del proprietario del conservificio sulla carrozza e sapevo che quella carrozza era anche opera dei miei muscoli, che avevano contribuito a trascinarla in giro.  Ma non provavo risentimento: faceva parte del gioco, i forti erano loro. Ma bene: siccome io ero forte, decisi che mi sarei trovato a forza un posto accanto a loro. Il lavoro non mi spaventava, amavo il lavoro duro.
Un colpo fortunato mi fece trovare un datore di lavoro che la pensava allo stesso modo: io ero disposto a lavorare e lui era più che disposto a farmi lavorare. Credevo che avrei imparato un mestiere e invece scoprii che stavo sostituendo due uomini. Io credevo che lui avrebbe fatto di me un elettricista e invece lui, sfruttandomi, faceva cinquanta dollari al mese. Gli uomini che avevo sostituito prendevano quaranta dollari al mese e io facevo il lavoro di loro due per trenta dollari al mese.
Troppo lavoro mi fece venire la nausea. Decisi che non volevo più lavorare per tutta la vita e fuggii. Feci il vagabondo, elemosinando per gli Stati Uniti tra bassifondi e prigioni. Ero nato proletario e a diciotto anni ero in un punto ben più basso di quando ero partito. Ero nelle profondità sotterranee della miseria della quale non é bello parlare. Ero nella buca, nell’abisso, nel pozzo nero, nel mattatoio, nell’ossario della civiltà: la parte dell’edificio che la società sceglie di ignorare.
Dirò solamente che le cose viste laggiù mi hanno terribilmente spaventato: al punto da riflettere e riconoscere le crude verità della complicata civiltà nella quale vivevo. La vita era una questione di cibo e riparo, e per ottenere ciò gli uomini vendono le cose. Il mercante vende scarpe, il rappresentante del popolo, tranne rare eccezioni, vende fiducia: quasi tutti vendono onore. Era tutta merce, ogni persona comprata veniva rivenduta.
Ma c’era una differenza. Scarpe, fiducia e onore si rigenerano. Il muscolo no. Mentre il commerciante di scarpe vende le scarpe, intanto rifornisce il magazzino. Ma non c’é alcun modo di rinnovare il magazzino di muscoli: più il lavoratore vende muscoli meno ne restano a lui. I muscoli erano l’unica merce che possiede ma ogni giorno diminuisce e alla fine, se prima non muore, svende: una bancarotta muscolare e quindi non resta che tornare nelle cantine e perire miseramente.
Appresi così che anche il cervello é merce, diversa dal muscolo: a cinquanta o sessant’anni, un venditore di cervello é ancora agli inizi e i suoi articoli vengono pagati bene. A cinquant’anni un lavoratore è esaurito. Se non potevo vivere dove c’era il salotto della società, avrei provato almeno nel sottotetto. Certo la dieta era magra ma l’aria era pura: presi una decisione. Non avrei più venduto i muscoli. Avrei venduto il mio cervello.
A questo punto ebbe inizio una frenetica conquista della conoscenza. Equipaggiato per diventare mercante di cervella, fu inevitabile approfondire la sociologia. In questa materia trovai semplici concetti già elaborati da solo. Altre menti ben più grandi avevano elaborato tutto quello che avevo pensato, e anche molto di più. Fu così che scoprii di essere un socialista.
I socialisti erano rivoluzionari: lottavano per rovesciare la società del presente e partendo dal mondo materiale, per costruire la società del futuro. Anch’io ero un socialista e un rivoluzionario. Mi unii ai gruppi dei rivoluzionari proletari e intellettuali e per la prima volta ebbi a che fare con la cultura. Qui scoprii menti acute e brillanti dotate di qualità eccezionali, conobbi membri della classe lavoratrice forti, le cui menti erano pronte e le mani callose; c’erano anche predicatori spretati dal cristianesimo a causa delle loro vedute troppo ampie; professori spezzati dalla ruota della subordinazione universitaria alla classe dominante.
Qui trovai anche una calorosa fede nell’idealismo umano, conobbi la dolcezza e l’altruismo, la rinuncia e il martirio: tutte le splendide e penetranti cose dello spirito. Dove stavo adesso la vita era pulita, nobile, viva e riabilitata, e io ero felice di essere vivo. Ero entrato in contatto con anime grandi che esaltavano carne e spirito invece di dollari e centesimi. Erano anime per le quali il flebile lamento del figlio affamato dei bassifondi significava ben più della pompa e della circostanza legata all’espansione commerciale dell’impero mondo. Tutto attorno a me c’erano nobiltà di intenti, sforzi eroici e i giorni e le notti erano la luce del sole e delle stelle, tutto fuoco e rugiada: davanti ai miei occhi, sempre acceso e scintillante, stava il Sacro Graal, il Graal di Cristo, il calore umano da troppo tempo in sofferenza e maltrattato, che finalmente veniva soccorso e salvato. E io, povero stupido me, decisi che queste erano solo un piccolo assaggio delle gioie della vita che, una volta salito, avrei ritrovato nella società al piano superiore.
Come mercante di cervello fui un successo. La società mi aprì le sue porte. Entrai giusto al piano del salotto e la disillusione procedette a passo spedito. Andai a cena con i padroni della società, le mogli e le figlie dei padroni della società. Ammetto che le donne erano agghindate in maniera meravigliosa ma che ingenua sorpresa quando scoprii che erano fatte della stessa creta con la quale erano fatte tutte le donne che avevo conosciuto nelle cantine.
Ma non fu questo a scioccarmi, più che altro fu il loro materialismo. É vero, queste donne bellissime vestite in maniera sontuosa cinguettavano dolci ideali e piccole care scienze morali: ma per quanto cinguettassero la chiave dominante della loro vita era il materialismo. E poi sentimentalmente erano veramente egoiste! Si prestavano a tutte le belle iniziative di carità, non mancando mai di farlo sapere bene a tutti ma intanto il loro cibo e i loro vestiti erano frutto dei dividendi macchiati dal sangue del lavoro infantile, del sudatissimo lavoro e della prostituzione. Quando accennavo a fatti simili, nella mia innocenza mi aspettavo che queste sorelle di Judy O’Grady si sarebbero immediatamente strappate gioielli e vesti insanguinate. Invece loro si alteravano, si infuriavano e mi davano lezioni sulla mancanza di parsimonia, sul bere e sull’innata depravazione che provocavano l’attuale miseria nelle cantine della società.
Coi padroni non mi andava meglio. Mi ero aspettato di trovare uomini limpidi, nobili e vivi, di ideali altrettanto limpidi, nobili e vivi. Mi aggirai tra gli uomini seduti sui gradini più alti – predicatori, politici, uomini d’affari, professori, editori. Mangiai alla loro tavola, bevvi il loro vino e li studiai. É vero, ne trovai tanti che erano limpidi e nobili ma tranne rare eccezioni, non erano vivi. Quando non erano vivi di marciume, svelti nella vita sporca, erano solo morti insepolti, limpidi e nobili come le mummie conservate, ma non erano vivi.
Conobbi uomini che invocavano il nome del principe della pace nel corso delle diatribe contro la guerra e che intanto mettevano i fucili in mano ai Pinkerton per abbattere gli scioperanti nelle loro fabbriche. Conobbi uomini talmente indignati di fronte alla brutalità del pugilato da perdere il controllo e che intanto erano i primi ad adulterare il cibo che ogni anno uccideva più neonati di qualsiasi sanguinario Erode.
Parlai in grandi alberghi, club, case, pullman e piroscafi con diversi capitani d’industria meravigliato dal loro brevissimo viaggio nel regno dell’intelletto. Nel rovescio della medaglia scoprii che il loro intelletto era sviluppato in maniera abnorme in senso affaristico. Scoprii pure che quando si parlava di affari la loro moralità era azzerata.
Un editore mi diede del demagogo canaglia perché gli dissi che la sua economia politica era antiquata e la sua biologia la stessa di Plinio. Lo stesso editore pubblicava la pubblicità di medicinali brevettati ma non osava stampare la verità sugli stessi medicinali per paura di perdere la pubblicità.
Era ovunque la stessa cosa: crimine e tradimento, tradimento e crimine, uomini vivi ma niente affatto limpidi e nobili. Oppure uomini limpidi e nobili che però non erano vivi. Poi c’era una massa enorme e senza speranza né nobile né viva, che era semplicemente limpida. Non peccava deliberatamente o con mano sicura: peccava passivamente in maniera ignorante adeguandosi semplicemente all’immoralità corrente traendone un profitto. Fosse stata nobile e viva non sarebbe stata ignorante e si sarebbe rifiutata di spartirsi i dividendi del tradimento e del crimine.
Mi resi conto che non mi piaceva vivere sul piano dove c’era il salotto della società. Ero intellettualmente annoiato, moralmente e spiritualmente nauseato. Mi ricordai dei miei intellettuali e idealisti, i miei predicatori spretati, i professori squattrinati e i lavoratori dalla mente lucida con una coscienza di classe. Ricordai le notti e i giorni del sole e delle stelle dove la vita era meraviglia dolce e selvaggia, un paradiso spirituale di avventure generose e di idillio etico. E davanti a me vidi rifulgere nuovamente infuocato il Sacro Graal.
Così tornai alla classe lavoratrice nella quale ero nato e alla quale appartenevo. Non mi interessava più risalire. L’edificio della società che incombeva sul capo non conteneva alcuna gioia per me. Sono le fondamenta dell’edificio che mi interessano. Poiché lì sono contento di lavorare, palanchino in mano, a fianco di intellettuali, idealisti e lavoratori con una coscienza di classe, per usare ogni tanto un bel piede di porco con cui far traballare tutto l’edificio. Un giorno, quando avremo più braccia e palanchini per lavorarci bene l’edificio, lo capovolgeremo e con esso rovesceremo tutti quei morti insepolti, la vita marcia, il mostruoso egoismo e l’ottuso materialismo. Dopodiché, ripuliremo la cantina e costruiremo una nuova abitazione per l’umanità nella quale non ci saranno piani con un salotto e dove le stanze saranno tutte luminose e arieggiate e l’aria limpida, nobile e viva.
Questo é il mio orizzonte: attendo con ansia il tempo in cui l’uomo compirà un progresso verso qualcosa che valga e che sia più importante dello stomaco, il tempo in cui l’uomo sarà spinto all’azione da un incentivo migliore di quello odierno, lo stomaco. Continuo a credere nella nobiltà e nell’eccellenza. Credo che la dolcezza spirituale e la generosità conquisteranno la volgare golosità odierna. Infine, la fede nella classe lavoratrice. Come disse un francese, “la scala del tempo riecheggia sempre il suono dello zoccolo che sale e dello stivale lucido che scende.”

lunedì 9 gennaio 2012

La lettera con cui Kerouac propose a Marlon Brando di fare un film "On the Road"



Caro Marlon,
vorrei  chiederti di acquistare i diritti di “On the Road” per farne un film. Non preoccuparti della struttura del libro, saprei comprimere e riorganizzare la trama quel tanto che basta per farne un film dalla struttura perfettamente accettabile: rendendolo un viaggio unico invece che una serie di viaggi da una costa all’altra, come avviene nel romanzo – un viaggio di andata e ritorno che parte da New York, passa per Denver, fino ad arrivare a Frisco, in Messico, a New Orleans e poi di nuovo a New York. Già mi vedo le belle inquadrature che potrebbero essere fatte con la camera sul sedile anteriore della vettura che mostra la strada (giorno e notte) che scorre davanti al parabrezza, mentre Sal e Dean chiacchierano fra di loro. Volevo che fossi tu a fare la parte di Dean perché lui(come sai) non è uno di quei pazzi a cui piace viaggiare andare spericolati ma un vero irlandese assennato(in realtà un gesuita). Tu farai Dean e io farò Sal (così mi ha detto la Warner Bros) e io ti mostrerò come si comporta Dean nella vita reale, cosa che tu non potresti immaginare senza una buona imitazione. In realtà potremmo andarlo a trovare a Frisco, o farlo venire a L.A., è ancora un vero disperato, ma ormai è sceso a patti con la parte finale della sua vita e recita il Padre Nostro coi suoi ragazzini la sera…come vedrai quando leggerai la piece BEAT GENERATION. Tutto quello che voglio è riuscire a sistemare me e mia madre per la vita, così sarò libero di andarmene in giro per il mondo a scrivere di Giappone, India, Francia, ecc… Voglio essere libero di scrivere ciò che mi passa per la testa & libero di dare qualcosa da mettere sotto i denti ai miei amici quando sono affamati & non preoccuparmi per mia madre.
Fra l’altro il mio prossimo romanzo “I Sotterranei” uscirà a New York a marzo e parla della storia d’amore fra un ragazzo bianco e una ragazza di colore, una storia alla moda insomma. Alcuni dei personaggi presenti nel libro, li hai conosciuti al Village (Stanley Gould, per esempio). Lo si potrebbe mettere in scena facilmente, molto più che “On The Road”.
Quello che vorrei è rinnovare il teatro e il cinema in America, dar loro un tocco di spontaneità, rimuovere il preconcetto della “situazione” e far sì che la gente si senta bollire il sangue come se si trattasse di vita reale. Questo è ciò che intendo per mettere in scena: non una trama in particolare, non un significato in particolare, ma solo il modo in cui le persone sono. Tutto ciò che scrivo lo faccio immaginandomi di essere un Angelo che torna sulla terra e la vede con occhi tristi così come essa è. Io so che tu approvi queste idee, e guarda caso anche il nuovo spettacolo di Frank Sinatra è improntato sulla spontaneità, che è il solo modo per arrivare da qualsiasi parte, sia nel mondo dello spettacolo che nella vita. I film francesi o quelli degli anni trenta sono ancora di gran lunga superiori ai nostri, perché i francesi hanno lasciato libertà ai loro attori e gli scrittori non sono stati a cavillare sul tipo di intelligenza che ha il pubblico dei film, hanno parlato con la loro anima all’anima di chi li ascoltava e sono stati subito compresi. Quando sarò ricco, poi, mi piacerebbe fare grandi film francesi in America… Il cinema e il teatro americani, al momento, sono un dinosauro fuori moda, che non ha risentito dei miglioramenti della letteratura americana.
Se l’idea ti piace, facciamo in modo di vederci a New York la prossima volta che passi, oppure in Florida dove sto, ma quello che davvero conta è parlarne, perché ho l’impressione che ne possa nascere qualcosa di davvero grande. Mi sto annoiando in questi giorni, e mi sto guardando in giro per trovare qualcosa da fare che mi faccia riempire il vuoto, e in ogni caso scrivere romanzi sta diventando troppo facile, così come scrivere per il teatro – ho scritto la mia opera teatrale in 24 ore.
Avanti, Marlon, non stare con le mani in mano e rispondi.


A presto, tuo Jack Kerouac
Il rotolo in cui Kerouac illustrò l'itinerario del suo viaggio